La favola durò
fino al 30 novembre. Alcuni colleghi anziani erano stati mandati in
prepensionamento e alle nuove reclute, tra cui io, non fu rinnovato il
contratto. Ricordo la responsabile che ci aveva convocati nel suo ufficio per
ripetere a tutti la stessa frase di circostanza: ci dispiace di non poter continuare
ad avvalerci della sua collaborazione, ma era già stato anticipato
l’impossibilità da parte nostra di rinnovarle il contratto.
Venni a sapere che l’anno successivo era stato
reclutato del nuovo personale con le stesse modalità di impiego, carne fresca
da sacrificare dieci mesi dopo sull’altare del precariato.
Sono passati quindici anni da quella fredda
mattina invernale in cui la mia carriera lavorativa è iniziata. Dicono che
proprio nel 1997 in
Italia si sia cominciato a parlare di instabilità occupazionale e flessibilità,
termine che allora veniva salutato come la nuova frontiera del lavoro e il
toccasana per un’economia in crisi. Oggi anche i politici, in perenne campagna
elettorale, hanno smesso di ripetere lo stesso ritornello, anche se ci pensano i signori dei governi tecnici. Ma intanto un’intera generazione, la mia, si è vista scorrere
davanti agli occhi gli anni migliori della sua giovinezza alla ricerca assidua
di una sicurezza economica irraggiungibile.
In questi anni sono passato da un lavoro
all’altro, cercando di guadagnarmi onestamente la fiducia di chi mi offriva un
nuovo impiego, disponibile a ogni sacrificio pur di poter ben figurare e,
magari, essere tenuto. Sono cresciuto professionalmente, mi sono laureato, ho
fatto corsi di formazione, ma ovunque, persino laddove le mie qualifiche erano
richieste per poter operare, mi sono sentito rispondere che ero bravo, ma non
avevano soldi per confermarmi il contratto e quindi dovevano lasciarmi a casa.
Le cose non sono cambiate. Festeggerò i miei
primi 15 anni di precariato in un posto dove la mia paga oraria è inferiore a
quella che percepivo nel 1997, al limite della soglia di povertà, e se mi
lamento mi dicono che devo ancora ringraziare perché in giro c’è parecchia
gente che resta senza lavoro. Solo non ho proprio voglia di dire grazie, sono
stufo di farmi in quattro per datori di lavoro che si sentono padroni e si
aspettano grandi cose senza essere disposti a offrirmi valide garanzie per il mio
domani, che è tutto ciò che conta ed è l’unica cosa che per me ha valore, oggi
come allora.
Benjamin Malaussène
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